di Andrea Beato
Addio a Sergio Marchionne, manager abruzzese che ha cambiato per sempre la Fiat e il settore dell’auto. La voglia di affermazione che nasceva dall’impegno e dall’emigrazione, la passione per il lavoro, l’azienda.
SERGIO MARCHIONNE: A 14 ANNI DALL’ABRUZZO AL CANADA
Lo stile, messa da parte la giacca per quell’informale maglione scuro girocollo che è diventato impronta inconfondibile, indossato perfino negli incontri ufficiali alla Casa Bianca o al Quirinale. Il carisma, il parlare in modo chiaro e diretto, senza cercare vie di fuga, arrivando dritto al punto. E con la volontà di trovare sempre una soluzione a ogni problema. Ciò che ha fatto, prendendo le redini della prima azienda italiana, tecnicamente fallita, sopraffatta dalla concorrenza asiatica, incapace di innovare, facendola diventare la settima potenza mondiale del settore automotive, grazie alla fusione con Chrysler. Sergio Marchionne è stato il nostro Steve Jobs. Non ha inventato nulla, non ha rivoluzionato le nostre vite, abilità finanziaria perlopiù, ma ha saputo confrontarsi con sfide complesse, guardare verso nuove prospettive, imporre una visione basata sull’orgoglio, sulla meritocrazia. È stato un “self-made man”. «Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo. Sei anni sprecati con le ragazze – ironizzava -. L’imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava».
L’ARRIVO AL LINGOTTO E LA NASCITA DEL GRUPPO FCA GRAZIE A SERGIO MARCHIONNE
E ogni giorno, per oltre mezzo secolo, dimostra di non farsi mettere più all’angolo da nessuno. Il riscatto passa anche dal conseguimento di tre lauree, la prima in Filosofia, «la più utile» (le altre in Economia e Giurisprudenza, ndr). Al Lingotto dal 2003 e da giugno 2004 nel ruolo di amministratore delegato, il suo tratto decisionista si fa subito sentire: una serie di cambi ai massimi vertici della società e, sopratutto, il durissimo braccio di ferro con General Motors. Il vero e proprio miracolo manageriale avviene nel 2009: in un’America piegata dalla crisi, riesce a ottenere dall’amministrazione Obama il 20% di Chrysler, una delle “big three” delle quattro ruote a stelle e strisce, sull’orlo del baratro. Solo cinque anni e il controllo passa al 100%. È la nascita di Fca. Il lavoro aumenta, con il jet privato si muove di continuo da una parte all’altra dell’Atlantico. Viaggia con uno zainetto o, molto spesso, semplicemente con due buste di plastica, una per le sigarette e il the freddo, l’altra con dentro i caricatori dei cellulari. Un cammino scandito da grandi operazioni, come il rilancio di Jeep, la rinascita di Maserati e la scommessa su un’Alfa Romeo “premium”, marchio caparbiamente negato ai concorrenti tedeschi.
L’ALTRA FACCIA DI SERGIO MARCHIONNE
Non c’è solo un Marchionne “buono”. La delocalizzazione di numerose produzione, con la chiusura di diversi impianti, primo fra tutti quello siciliano di Termini Imerese (Palermo), crea una profonda frattura con i sindacati. La natura di player globale porta alla decisione di trasferire la sede legale in Olanda e quella fiscale in Inghilterra, mossa che fa storcere il naso all’opinione pubblica e alla politica. Marchionne si dimostra manager che non tollera ostacoli sul suo cammino: esce da Confindustria, silura Luca Cordero di Montezemolo, diversissimo per storia e modi, scegliendo di guidare in prima persona pure Ferrari, preparandola allo sbarco a Wall Street. Il piano industriale più recente mette all’orizzonte il declino del brand Fiat, preferendo quello della “famiglia 500”, e l’uscita di scena di Lancia. In una delle ultime occasioni pubbliche, al tradizionale pullover aggiunge la cravatta. Il mantenimento di una promessa nel giorno in cui Fca avrebbe azzerato tutti i suoi debiti. Così è stato.
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