di Maurizio Delfino
Se c’è una cosa che va riconosciuta a Renzi è quella di riuscire a stanare la consistenza – che per lo più è nulla – di quelli che si sentono toccati dalle sue irruzioni. Il metodo è interessante: si dice una cosa seria e urgente. Si fa una cosa che non c’entra nulla e poi si aspetta la reazione che, di solito, è così ridicola che, quasi quasi, ha fatto bene il premier (anche se non ha fatto nulla, in verità). Sulle Banche Popolari è andata un po’ così. Abruzzo Magazine, a fine 2013 con “Chi ha paura delle Banche Popolari” (sul numero di novembre/dicembre 2013, a pagina 47), aveva incredibilmente anticipato i temi e fatto una previsione, che qualcosa sarebbe accaduto e che se ne sarebbe dovuto riparlare presto. Ora mettere insieme le spiegazioni e i commenti è davvero difficile, talmente tante sciocchezze sono state fatte e dette. Il governo ha deciso che entro 18 mesi le grandi banche popolari devono diventare s.p.a. e abbandonare il sistema di voto capitario (ogni socio un solo voto a prescindere da quanto capitale si possegga). Perché? Ridurre i costi dei servizi bancari e aumentare il credito, dice il documento ufficiale. Peccato che 100 premi Nobel di tutti i tempi non saprebbero inventare (si può solo inventare) un motivo per cui aumenterebbe il credito se spezzi le gambe a quel modello di banca, o meglio se costringi le 10 maggiori popolari italiane a rinunciare a quella fisionomia (sono escluse le popolari sotto soglia di 8 miliardi). Stendiamo un velo pietoso sul documento approvato dopo alcuni giorni di grande riflessione dall’associazione delle popolari, che andrebbe bene come canovaccio per Crozza (dove s’invoca drastico calo del Pil, tragedie, disoccupazione… Una roba ridicola e disgustosa se non fosse divertente). Occasione persa dalle popolari, che d’altra parte – per gli addetti ai lavori ma anche per molti semplici osservatori – sono oltre 10 anni che venivano richieste di una riforma. Quale? Rendersi un po’ più “giuste” e “trasparenti” con i tanti soci vecchi e nuovi, a cui si son chiesti soldi per rimanere forti nella tempesta. E per cercare di essere un po’ diversi, di rispettare la vocazione a prediligere l’attenzione per il territorio di presidio o di nascita, a interloquire col cliente con più pazienza e attenzione… Lo hanno fatto le banche popolari negli ultimi anni? Sì. Molti studi, seri senza secondi fini, evidenziano che i diversi parametri con cui si misura la qualità di una banca, non solo freddi numeri, ma anche quelli che attestano se è una banca su cui puoi contare, promuovono senza dubbio il modello popolare, ma anche le nostre popolari italiane. Non sarà un caso se Paesi come il Canada e l’Australia, che guarda caso hanno accusato molto meno di altri i colpi delle varie crisi che mordono da oltre 6 anni, hanno fortissime presenze di banche cooperative e popolari; non è un caso se in Francia alla giornata annuale delle Popolari partecipa il presidente della repubblica, e molto altro si potrebbe dire… Fra cui, perché no, che le crisi più vicine al nostro territorio – Tercas e Banca Marche, o nazionali, Montepaschi e Carige – sono forse interne al mondo delle Popolari? No. Per cui la vera domanda è: ma era così urgente e prioritario dover intervenire su questo fronte? Posto che è chiaro che è assurdo che si debba intervenire con decreto legge su questo tema, com’è assurdo l’immobilismo delle banche in questi anni (a proposito, ma l’immobilismo è stato solo su questi aspetti di sistema e di meccanismi?), la risposta, nell’epoca di Renzi, non ha alcuna importanza rispetto al punto di partenza! Questo il punto. Tutto ciò non c’entra quasi nulla con il credito, con il costo del credito, altro tema abusato per opportunismo e molta ignoranza. Quasi, perché è ovvio, la situazione europea, il nuovo ruolo della Bce, alcune necessità di protezione dalla speculazione internazionale, costringono a rapidi passaggi verso un consolidamento del sistema. In parole molto semplici, e come abbiamo detto molte volte, se queste sono la realtà e il mondo e se l’Europa vuole combattere la sua sfida (salvo chiarire a se stessa quale sia!), le banche, che all’occorrenza fanno e hanno fatto da stampella agli stati (con rapporti di dare/avere mai scontati a saldo), devono essere solide, patrimonializzate e rapide. Il decreto Popolari ha questo scopo, e basta. L’unico vero commento politico economico che nessuno ha fatto – tranne Abruzzo Magazine, ancora una volta! – è che se il governo ha ficcato questo provvedimento così e ora, vuol dire che la vede dura eccome, in termini di ripresa e prospettiva. E se anche lo scopo fosse, come ha gridato Giulio Sapelli e qualcun altro, attingere dalle ricche casse delle Popolari per salvare crisi e buchi altrove, in una chiave nazionale ed europea anche questo non sarebbe illegittimo. Fesso chi si è fatto fregare, pur di difendere il posto e il ruolo di qualche brocco di turno. Fesso il territorio, che per cortigianeria e qualche spiccio, si è fatto trascinare nel fango. Il problema, ancora, è che questo non c’entra con il tema del credito, con come si eroga, con quanto se ne eroga, con a chi si eroga, con quanto costa… Perciò accogliamo con grande curiosità l’idea del presidente della Regione D’Alfonso di un Osservatorio regionale sul credito. Di cui non sappiamo nulla, tranne una cosa. Che può essere fatto in due modi. Entrambi degnissimi. Uno come farebbe un grande democristiano di spessore e di “razza”, come D’Alfonso. Un luogo che dialoga, raccoglie, suggerisce, ospita, contatta e magari, alla fine, in un mondo davvero in trasformazione, in una povera regione che fra baresi e commissari non ha più una sua bancarella (tranne piccole, forti e orgogliose cooperative), troverebbe anche il modo di spedire qualche amico, meritevolissimo, ai tavoli e nei luoghi che conteranno. Siamo pur sempre la città di Caffè, come è venuto a ricordarci il governatore Visco. E tutto sia letto senza alcuna ironia. Ma ancora non c’entra col problema del credito e, volendo, del suo ruolo e funzione nell’ottica di un sogno, che temiamo sempre più sbiadito, di una ripresa umana, morale ed economica, che ha qualche chance solo se è di enorme respiro e portata. E questo, purtroppo e per fortuna, Luciano D’Alfonso (come Renzi) lo sa.