di Stefano Cianciotta
Al termine di un ciclo statuale durato quasi un ventennio, si decise nel decennio 1960-1970 che erano maturi i tempi del decentramento istituzionale in un’Italia cresciuta e dinamica, segnata da una forte caratterizzazione industriale al Nord e ancorata all’economia agricola al Sud. Furono così istituite le Regioni, il cui punto di partenza era all’epoca costituito dalle tante identità storiche dei territori di uno Stato ancora giovane. E già allora la Fondazione Agnelli, muovendo da analisi e valutazioni industriali e fordiste, pose il tema delle macroregioni, argomento poi superato nei fatti da quella che i sociologi e gli economisti definiscono Terza Italia, fatta di distretti produttivi, capitalismo molecolare, territori che si facevano via via protagonisti.
È stata poi la volta delle Regioni, attori della modernizzazione dei territori, soprattutto al Nord e al Centro, protagonisti nella gestione del welfare attraverso il trasferimento della delega alla sanità. La riforma del Titolo V, nel 2001, decentrava alle Regioni molte delle funzioni che erano fino a quel momento in capo allo Stato centrale. La parola d’ordine di allora era devoluzione: dallo Stato alle Regioni, dalle Regioni alle Province, dalle Province ai Comuni.
La globalizzazione prima, e la crisi economica degli ultimi otto anni poi, hanno modificato radicalmente gli scenari, determinando sul territorio stravolgimenti epocali, che stanno cambiando ruoli e funzioni della rappresentanza. L’epoca dell’economia della conoscenza a base urbana, dei distretti industriali, dei sistemi locali non è più sufficiente per competere a livello internazionale.
L’asse Bruxelles-Roma-territorio è pertanto fondamentale per capire in quale direzione proiettare la progettualità dei territori, per ridefinire competenze e ambiti di attività, che non possono più essere rivendicati in termini di campanilismo, come continua ad accadere anche in Abruzzo. Il nuovo protagonismo dei poli urbani, delle aree metropolitane, pone il tema dell’Italia delle 100 città. In Parlamento il disegno di legge Morassut-Ranucci tratteggia un’ipotesi di macroregioni, che sarebbero definite sulla base di nuovi indicatori economici e sociali.
Di recente ad Ancona, sul tema, il presidente della Toscana, Enrico Rossi, insieme con i colleghi presidenti di Marche e Umbria, Ceriscioli e Marini, ha lanciato il modello tosco-umbro-marchigiano, alla vigilia del completamento delle superstrade Civitanova-Colfiorito-Foligno e Ancona-Fabriano-Nocera Umbra. Nel Nord il polo metropolitano Milano-Torino-Genova è ormai realtà e sarà uno dei driver di sviluppo del dopo Expo. Al Sud, muovendo dall’alta velocità Napoli-Bari e con Matera Capitale europea della cultura, si ragiona sull’asse Basilicata-Campania-Puglia.
A proposito dell’Abruzzo il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ha ipotizzato a Campobasso che Abruzzo e Molise tornino presto insieme. A mio giudizio l’Abruzzo avrebbe molte punti a favore in ambito di macroregione, ma è ora di accelerare per imprimere una visione chiara al progetto, e individuare i suoi punti di forza, perché restare un ibrido nella società contemporanea significa non esistere ed essere marginali.
Su questo argomento Luciano D’Alfonso, presidente della Regione, si sta giocando giustamente una parte importante del suo mandato, sostenendo la macroregione Adriatico-Ionica, con una presenza più assidua a Roma e a Bruxelles. A questo cambiamento di posizione l’Abruzzo arriva per alcuni versi in anticipo rispetto ai competitor – la fusione tra le Confindustria di Pescara e Chieti è un esempio positivo della nuova governance delle associazioni – per altri in ritardo.
A cedere il passo sono proprio le città, che in questo momento sembrano, a livello progettuale e di capacità di visione, in posizione defilata rispetto alla Regione. Recuperare il dinamismo e le tipicità dei territori – vincolati ancora a logiche di rivendicazione corporative e di campanile come nel caso del mantenimento delle prefetture – è una leva fondamentale per costruire l’Abruzzo dei prossimi vent’anni. L’arretramento dello Stato e della burocrazia statale è un fenomeno ineludibile e inarrestabile, con il quale tutti i territori devono confrontarsi.
La nuova organizzazione multicentrica dello Stato penalizza talvolta i capoluoghi di provincia, ma in altri casi li privilegia, come dimostra la riforma della giustizia, che ha accentrato nei tribunali le sezione distaccate provinciali. I capoluoghi abruzzesi devono dimostrare progettualità per contribuire alla costruzione dell’Abruzzo del futuro. Il tempo delle divisioni è terminato da un pezzo.