di Stefano Cianciotta*
Può un’eccellente operazione di management, design e comunicazione stridere con l’incapacità di prevedere e rispondere in modo chiaro e tempestivo a una crisi, tutt’altro che imprevedibile?
A giudicare dall’episodio che ha colpito Moncler nelle scorse settimane pare proprio di sì. L’imprenditore Remo Ruffini è riuscito a riportare in auge un marchio famoso negli anni ‘80, a quotarlo con risultati soddisfacenti (anche se negli ultimi mesi il titolo aveva perso quasi il 17%), ma poi è rimasto imbrigliato in una situazione che di imprevisto aveva davvero poco. L’azienda era a conoscenza del servizio andato in onda su Report, ed era prevedibile che la puntata contro lo sfruttamento delle oche negli allevamenti ungheresi per produrre le piume necessarie a confezionare i famosi piumini, avrebbe scatenato un putiferio, con ripercussioni significative sul titolo, che ha perso nelle quarantotto ore successive il 4,8% del suo valore, pari a 140 milioni di euro. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: passi la strumentalizzazione di cui sarebbe stata oggetto l’azienda, ma come è possibile che lo staff di Ruffini non abbia strutturato una strategia media in grado di portare dati, numeri di clienti, investitori, dipendenti, a sostegno delle affermazioni dell’azienda e della tutela della sua reputazione e immagine? Possedere una buona reputazione per un individuo così come per un’azienda, costituisce infatti un fattore di successo sul quale si misura l’indice di gradimento dei potenziali clienti e di riconoscibilità all’interno di un contesto in continua evoluzione, nel quale, comunque, i media tradizionali, come insegna proprio l’episodio di Moncler, continuano a esercitare una sfera di influenza significativa. Su questi temi, che appartengono all’universo manageriale, l’Italia è in ritardo rispetto agli Stati Uniti e al Nord Europa, dove proprio il concetto di reputazione è alla base della valutazione del comportamento degli azionisti nei confronti del management dell’azienda. Le parole pronunciate contro la giornalista Gabbanelli da parte di Bertelli, numero uno di Prada e di Stefano Gabbana, appaiono dettate unicamente dalla necessità di difendere la “categoria” del lusso. Quelle affermazioni stridono col grande cambiamento che molte imprese italiane stanno producendo in questi anni, nonostante la tassazione sul lavoro e una burocrazia così asfissiante inducano a delocalizzare e a rinunciare a produrre in Italia. Consapevoli dell’aumento della competitività e della minore efficacia della pubblicità tradizionale, le aziende italiane, soprattutto le Pmi, stanno invece comprendendo sempre di più l’importanza della gestione e della salvaguardia della propria reputazione, costruita anche attraverso asset intangibili quali la fedeltà e la motivazione dei propri dipendenti, la fiducia di clienti e consumatori. Gli imprenditori illuminati, che fanno crescere la ricchezza anche dell’Abruzzo, stanno sfidando la crisi investendo sul capitale umano e riorganizzando la propria azienda attraverso la condivisione di nuovi obiettivi e strategie. L’Italia delle istituzioni e delle aziende ha bisogno di leader. E spesso le Pmi italiane hanno dimostrato capacità di leadership superiori alle imprese più blasonate, come dimostra, ad esempio, il boom del ricorso al capital market per liberarsi dal canale bancario. Cresce il numero delle Pmi che si finanziano quotandosi in Borsa, aumentano le Pmi che scelgono di tutelare la propria reputazione investendo sul capitale umano nella riorganizzazione aziendale.
* Giornalista economico, è docente di Comunicazione di Crisi aziendale e Media Relation alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Teramo. È fellow del Think Tank Competere sul tema della Comunicazione di Crisi.